MANIFESTI COLORATI
Ed un ricordo di gioventù
Si avvicinano le elezioni del 16 aprile e diventa sempre più intensa, per uomini e partiti, la corsa vorticosa verso il cielo dell'apparire. Mentre tutt'intorno al mondo della politica, come di una città fumigante, si accumulano le macerie di principi e valori, ecco almeno ci rimane la forza della saponetta che ci sana ed il dentifricio con cui "spuntano i fiori in bocca", sicuri che la realtà virtuale non ci possa deludere.
Bisogna confessarlo, però. Ognuno mette fuori la parte migliore di sé ed i fotografi fanno salti mortali, per comunicare improbabili speranze ed ingannevoli attese di "freschezze al potere". Quei sorrisi, che vorrebbero essere accattivanti, in realtà non riescono a sconfiggere, in ognuno di noi, un senso insopprimibile di diffidenza.
Non è, tuttavia, a queste foto che si rivolge il mio pensiero, quanto piuttosto ad una storia accadutami ormai tanti anni fa.
Si era alle elezioni politiche del 1968. Avevo fino a quel momento tifato per il partito col quale avevo respirato fin dalla nascita. C'erano già state le elezioni del 1953 e del '58, quand'ero ancora un bambino, e feci la staffetta per le sezioni elettorali in quelle del '63.
Invece, le elezioni del '68 furono per me un'altra cosa. Era lo sbocciare della vera passione politica, insieme ai più maturi amori. Erano i tempi dell'università, del sogno mondiale di mandare l'immaginazione al potere. Era il Sessantotto, e basti la parola! Da una parte la gioventù, la fantasia, la poesia, la lotta, la giustizia, il bene. Tutto il resto dall'altra.
E v'erano le canzoni. La tristezza di Luigi Tenco; Fabrizio De André e la "Guerra di Piero"; i canti di liberazione spagnoli e "C'era un ragazzo..." contro la sporca guerra del Vietnam. Ma una canzone in particolare rischiava di farmi saltare le meningi: "La bambola". Ad ogni angolo, girando con l'auto per le strade di periferia, sempre la stessa canzone. Anche quello era il risveglio dell'agone politico: il popolo che credeva nei partiti, la gente che usciva per le strade per parlarci, mentre andavamo lanciando i nostri altisonanti messaggi, tra un disco e l'altro(sempre quello); gli universitari che si univano a noi, al grande partito degli operai, al partito di Gramsci e di Togliatti, "che veniva da lontano per andare lontano".
In quel clima e nel nuovo fervore che mi davano gli studi universitari, non volli perdermi neanche un comizio di mio padre, in ogni città, in ogni paese, in ogni villaggio di campagna, in ogni angolo più sperduto della provincia di Foggia. Lui alla guida ed io al suo fianco, silenzioso come un'ombra.
Non una frase, non una parola, non un concetto mi persi di tutti i suoi discorsi.
Ma fu proprio in quell'anno che successe il triste infortunio, di cui ancora la mia mente non riesce a liberarsi. Dopo tre legislature da deputato, quell'anno mio padre era candidato al Senato, in una lista unitaria del PCI-PSIUP, per il collegio Manfredonia-Cerignola. Trattandosi di collegio uninominale, il suo nome sarebbe apparso scritto, per la prima volta, direttamente sulla scheda.
Fu quella la molla che spinse un bravissimo compagno, approfittando dell'assenza di mio padre da Manfredonia, a fargli una sorpresa. Fece stampare un volantino, con il curriculum dell'attività da lui svolta, ma inserendovi, su un lato, una minuscola foto in bianco e nero. Io non vi trovai, lì per lì, nulla di male, e rimasi davvero interdetto quando vidi la severa disapprovazione di mio padre, tornato da Roma, lanciata verso il suo fraterno compagno, soprattutto quando, aperta un'anta dell'armadio impolverato di uno sgabuzzino della sezione, si accorse che, a quella piccola pila già mostrata, si aggiungevano quasi altri diecimila volantini con la foto. Solo allora mi ricordai di tutti gli attacchi portati da mio padre nei comizi, contro "la carnevalata dei mezzibusti colorati. E poi" diceva "chi paga tutti questi volantini e manifesti? Ve ne accorgerete dopo le elezioni, chi li paga. Costruttori dediti al malaffare, finanziatori occulti in attesa di ricevere in cambio dalla pubblica amministrazione dieci vol te tanto. Quindi, sarete ancora una volta voi a pagare la loro propaganda! Noi comunisti, invece, siamo gente seria, e soprattutto gente onesta!".
Il ricordo di quelle frasi, ascoltate diecine di volte in tutti i comizi, con piccole variazioni di parole e di tono, a seconda della grandezza dei centri toccati e del livello culturale dell'uditorio, mi diedero una sorta di groppo allo stomaco ed una reattività piena della passione tipica dei giovani. Dimenticai, perfino, l'affetto che mi legava a quel compagno, una sorta di secondo padre per me, e mi colmai di sdegno. Con quei sentimenti, e la sicurezza di obbedire a finalità più alte, cominciai a strappare e strappare, tutti i diecimila manifestini con la fotografia di mio padre, riempiendo diversi secchi, dopo che lui, con fare rapido, mi chiuse in quello sgabuzzino puzzolente. Solo dopo più di un'ora diedi il segnale per uscire, ma non prima di aver fatto in tempo ad asciugare sul mio volto le lacrime che, dopo il primo momento di sdegno ideologico, avevano preso a colare su quei foglietti in bianco e nero.
Non so se dirvelo, ma fu di certo il trasporto verso mio padre a buttarmi tra le braccia di quell'inattesa debolezza - che ti fa l'affetto di un figlio! - e farmi pensare che, mentre gli altri ostentavano i loro grugni colorati, io strappavo la faccia che in cuor mio ritenevo l'unica degna di essere mostrata.
Certo erano altri tempi ed altre emozioni, ma mio padre non sa che, di quei diecimila manifestini non colorati, uno l'ho conservato per me ed ancora adesso è qui davanti e mi guarda.
ITALO MAGNO